PRIMA DELL'OTTO SETTEMBRE.
C'ERA UNA VOLTA LA PATRIA.
DO YOU REMEMBER?
DISCORSO AGLI ITALIANI
Giovanni Gentile Roma. 24 Giugno 1943.
Questo discorso si rivolge
a tutti gli Italiani che hanno un'Italia nel cuore: un'Italia, che non
sia nome vano e retorico, ma qualche cosa di vivo e operante nel pensiero
e nella volontà. Parlo come fascista, quale son fiero di essere
perché mi sento profondamente italiano, e perciò parlo prima
di tutto come italiano che ha qualcosa da dire a tutti gli Italiani, fascisti
o non fascisti, fascisti della tessera e fascisti della fede. Dico fascisti
della tessera e fascisti della fede, perché ho sempre ritenuto che
la distinzione fosse necessaria per non scambiare il principio e l'ideale
a cui s'intende aderire e che può essere la sorgente della nostra
fede e della nostra forza, con le materiali deviazioni che del principio
e dell'ideale sono flagranti falsificazioni e qualche volta pratici tradimenti.
E ho sempre ritenuto che tesserati e non tesserati si potesse essere tutti
Italiani, concordi nell'essenziale, ancorché dissenzienti nelle
forme della disciplina politica: Italiani tutti e perciò tutti virtualmente
fascisti, perché sinceramente zelanti di un'Italia che conti nel
mondo, degna del suo passato. E voglio dire subito che di due cose sono
e sono stato sempre profondamente persuaso: che molti, per vari piccoli
motivi, amano dirsi fascisti e tengono alla tessera, i quali non operano
né parlano né sentono da fascisti- e viceversa molti, moltissimi
non curano d'iscriversi al Partito, i quali sentono, e parlano, e operano
da fascisti sul serio, ancorché rimangano talvolta intricati in
ideologie inconsistenti e fallaci, annidate nel loro cervello come quei
tanti pregiudizi che ogni uomo non riesce ad espellere, ingombro più
o meno innocuo al carattere e al pratico operare.
Una rivoluzione prima di essere
riordinamento totale, politico e sociale, è un’intuizione, un'idea,
una ispirazione profonda di tutta la vita morale: una ispirazione che praticamente
s'impone in forme violente, che possono dare l'apparenza degli improvvisi
cambiamenti dei pensiero, delle istituzioni, del costume e delle norme
giuridiche; ma in sostanza e in verità opera lenta, graduale, nel
segreto della vita dello spirito, attraverso la formazione delle coscienze
che procede per tappe talvolta secolari. Tutte le grandi rivoluzioni hanno
avuto martiri ed eroi, ma hanno pure avuto tiepidi proseliti, pigri assertori,
ipocriti, ingenui o profittatori.
Basta pensare alla corruttela
degli ordini monastici, sorti e retti sempre da una sublime passione per
la vita superiore dello spirito. E mi piace notare che quelli che si scandalizzano
dei cattivi esempi che talvolta purtroppo ci vengono da questo o quello
dei molti e forse troppi organizzatori della grande massa del partito,
mi dan l'aria degli scervellati, che in tutti i tempi si son lasciati sfuggire
l'importanza ed efficienza storica delle grandi idee perché queste
idee non le hanno sapute vedere se non gli uomini che le rappresentavano.
Ma, se non altro, la necessità quotidiana del «cambio della
guardia» ammonisce ogni giorno che altro è la persona, altro
l'idea che alla persona conferisce valore e autorità.
Queste cose io le dico, ben
inteso, non perché il Fascismo abbia da scusarsi di errori di cui
oggi, nel momento della grande prova, gli si possa chiedere conto, ma perché
desidero ora più che mai, poiché oso di rivolgere il mio
discorso a tutti gli Italiani, apparire come sono: sgombro da ogni motivo
di parzialità o partigianeria; desidero essere e presentarmi non
gregario di un partito che divida, ma seguace di un concetto che possa
stringere in una stessa fede e in un concorde proponimento quanti sono
veramente Italiani. Gli errori del Fascismo sono gli errori inevitabili
di ogni vasto movimento rivoluzionario. E non vedo che bisogno ci sia di
negarli. Ma al di là dei particolari, io affermo, e confido che
ognuno vorrà convenire, che c'è l'essenziale del Fascismo;
di quel Fascismo al quale tutti gli Italiani applaudirono nel '22 quando
Mussolini levò i suoi gagliardetti e chiamò intorno a sé
tutto il popolo, di tutti i partiti; quel Fascismo, al quale gli Italiani
non sapranno mai rinunziare.
Questo essenziale è,
prima di tutto, una grande Italia, quale può essere soltanto se
stretta in una forte compagine politica, ossia in uno Stato che abbia la
coscienza del suo diritto e della sua forza, del suo passato e del suo
destino, e potente volontà realizzatrice, e perciò potenziatrice
e disciplinatrice delle energie nazionali, individui e classi sociali,
in un ordine di giustizia fondato sul principio che l'unico valore è
il lavoro: il lavoro umano che è attuazione della vita spirituale
nel complesso de' suoi beni economici e delle sue idealità etiche.
Questa grande Italia, questa Patria che gli Italiani devono far grande
contro le avversità della natura e degli uomini, questa è
stata dalla guerra del 1915-18 l'ardente passione di Mussolini: la passione
che egli ha riaccesa nel cuore degli Italiani, i quali nella sua possente
voce risvegliatrice degli anni cupi dei dopoguerra e della vittoria tradita
e defraudata, riudirono l'antica voce dei padri del Risorgimento e delle
epoche che questo avevano preparato: la voce dei profeti della Patria,
che tornava ringagliardita dalla coscienza della prima guerra nazionale
vittoriosamente compiuta e dalla memoria recente di seicentomila giovani
immolatisi in un delirio d'amore, come solamente i giovani sanno sentirlo,
per questa Italia che dai poeti, dai pensatori e dai martiri avevano imparato
a conoscere come cosa sacra. Ed ecco che a quella voce rinnovatrice della
fede antica tutti si riscossero, e si affollarono plaudenti intorno al
Duce. Il quale, fin dal primo giorno, tra il consenso universale, poté
pronunziare il de profundis di quella falsa libertà, di quella bastarda
tirannica libertà che era la libertà del regime parlamentare.
Noi che udimmo alla Camera, al Senato il discorso del 16 novembre 1922,
abbiamo ancora presenti alla memoria le facce compunte, tra vergognose
ed esterrefatte, dei vecchi paladini della squarquoia Italiana che cadeva,
di quei testimoni muti di una pseudo-libertà che veniva sotterrata
per sempre, mentre irrefrenabili scoppiavano applausi della maggioranza
sorpresa insieme e giubilante della coraggiosa negazione e dell'annunzio
di una nuova vita politica.
Mi sia consentito di ricordare
un mio scritto del 15 dicembre 1917, nel quale, dopo Caporetto, quando
l'Italia si era riavuta da quel primo subitaneo sgomento, affermavo che
«un'Italia destinata a morire per effetto di una disfatta militare
non sarebbe stata, se mai, degna di vivere. Non sarebbe stata già
un popolo fatto per vivere a libero Stato, sì veramente, come amano
dipingerci i nostri nemici, quasi un'accozzaglia di uomini senza disciplina
di sorta (senza disciplina politica, perché senza disciplina morale
e religiosa) e senza capacità di serio lavoro scientifico (che è
metodo, ed organizzazione), quantunque non privi di ingegno artistico e
di sporadica genialità». E aggiungevo: «Orbene, se l'Italia
non fosse stata altro che questo; se il suo Risorgimento nel secolo XIX
non fosse stato più che l'opera di fortunate circostanze sfruttate
dall'accorgimento individuale di pochi uomini, senza radici nella storia
e nell’animo popolare, e però senza sostanza; se lo Stato quindi
non si fosse dovuto considerare altrimenti di una baracca fabbricata e
tenuta su alla men peggio per dar modo ad alcune centinaia di avvocati
di riunirsi in Roma a far chiacchiere o gli interessi di questo o quel
gruppo, di questa o quella classe; oh per Dio! non questa era l'Italia
immortale che imparammo ad amare ardentemente nelle pagine dei nostri grandi».
L'Italia non soggiacque a
Caporetto; e il Piave e Vittorio Veneto ebbero il loro sbocco nella Marcia
su Roma; e quella baracca fu scrollata e spazzata via. E i veri liberali
che sentivano la nausea di quella baracca, furono contenti. I liberali
dell'Aventino e della posteriore «religione della libertà»
diventavano sempre più malinconici nell'accorata nostalgia del fugato
ed evanescente fantasma della libertà parlamentare. Con questa infatti
essi scambiavano la sola libertà che esista, la eterna libertà,
che è dello spirito nella sua vita interiore, alla quale le contingenti
strutture della organizzazione vengono apprestando le varie forme di esistenza
a volta a volta giustificate da particolari ragioni storiche, tutte inadeguate
e talvolta anche contrarie all'essenza della stessa libertà: le
quali, ad ogni modo, fatte il loro tempo periscono.
E spesso non riescono nemmeno
ad attecchire perché create artificialmente ad imitazioni di Stati
con diversi costumi, diversa educazione, diversa storia. Comunque, tali
forme non sono eterne categorie dello spirito, ma semplici strumenti che
servono finché servono e poi si logorano e si buttan via.
Altro è la libertà,
altro il liberalismo: quella, ripeto, è eterna; questo non si può
irrigidire in una forma storica senza vuotarsi del suo spirito originario
e isterilirsi in un meccanismo funesto; dal quale i sinceri amatori della
libertà non possono non desiderare che la Nazione venga liberata.
E chi si indugia a piangere sulle rovine di Cartagine, e non ha occhi per
vedere la grandezza di Roma, è uno spirito romantico che alla lunga
riesce ridicolo. Il parlamentarismo è morto in Italia e bisogna
che anche i non fascisti, anche i comunisti anelanti in segreto non si
sa quale libertà utopistica, ne sappiano grado a Mussolini.
Noi che non siamo di ieri,
abbiamo viva nella memoria la cronaca della corruttela parlamentare che
venne inchiodando il nostro paese dal '76 in poi alla croce di un sistema
dissolvitore di ogni schietto spirito politico, voglio dire del concetto
e sentimento dello Stato e del suo valore, e quindi di ogni energica volontà
di elevazione e di grandezza. E chi è giovane, se vuol sapere quale
vita morale, quale carattere allignasse nella morta gora del politicantismo
elettoralistico di un tempo, legga il Viaggio elettorale di De Sanctis,
che è pittura artisticamente ancor viva, e documento fedele del
costume imperante nella vita pubblica italiana di un tempo.
Ma quel liberalismo non è
morto soltanto in Italia. Gli Stati che si dicono democratici per avversione
ai nuovi Stati totalitari dimostratisi via via sempre più incomodi
e pericolosi, hanno trovato il modo di rintuzzare ogni velleità
liberalesca individualistica con la forza stritolatrice dei raggruppamenti
economici. La libertà in cotesti Paesi è a terra, e non può
aver salvezza, come sempre più apertamente si riconosce in linea
teorica e nella prassi politica, se non nell'assetto corporativo; ossia
nell'idea che il Fascismo, primo, proclamò in Italia come l'ordinamento
più congruo alle insopprimibili tendenze dell'individualismo, quando
questo non sia concepito in funzione di atomi sociali affatto inesistenti,
ma come l'individualismo degl'individui reali, che, pur essendo sempre
individui, sono dalla loro attività economica, come forze produttrici,
specificati, raggruppati, stretti in sistema organico, la cui unità,
fatta consapevole del comune interesse, è lo Stato. E questo Stato
nella sua forma corporativa non è il gran gerente degli interessi
materiali della complessa azienda economica di tutti i cittadini, ma la
personalità centrale creatrice del diritto di tutti i gruppi e di
tutti gli individui, e, come ogni personalità, dotata di un valore
etico assoluto e autonomo: sistema della libertà.
Tutti i popoli, si può
dire, si orientano ormai verso questo ideale dello Stato corporativo, che
è in cammino. Processo di formazione difficile, che oggi è
appena a1 suo inizio.
Ma sentono tutti che esso
è l’ avvenire. Si modificherà, si snellirà facendosi
sempre più aderente alla realtà sociale ed economica; ma
tornare indietro non è possibile. E forse l'Europa ritroverà
se stessa , la sua forza e la sua missione direttiva nel mondo, quando
si sarà resa conto di questo profondo principio di vita che è
nel regime corporativo.
Comunque, se questa rivoluzione
fascista che è l'Italia di Vittorio Veneto aspirante con la coscienza
del suo diritto a riscattare la sua vittoria dalla prepotenza usurpatrice
di Versaglia, è la liquidazione del regime parlamentare e l'avviamento
al corporativismo, io non so vedere nel Fascismo altro che il potenziamento
di questa nostra Italia: dell'Italia di Dante e Machiavelli, di Cuoco e
di Mazzini, della tradizione nazionale e realistica, dell'Italia destinata
ad adempiere una sua missione nel mondo: quell'Italia, che gli Italiani
del nostro secolo ebbero prezioso retaggio dai loro padri dell'Ottocento,
come lampada da alimentare col meglio di se stessi: lavorando, studiando,
facendosi onore dentro e fuori i confini della Patria, conciliandosi l'universale
rispetto con la serietà del carattere e del costume, con la risolutezza
e tenacia dei propositi, con la disciplina delle armi, con l'ardimento
necessario nelle competizioni mondiali, con l'austerità della vita
che ben si può accompagnare con la genialità dello spirito
luminoso della razza.
Questa Italia ha certamente
trovato nella voce di Mussolini una potente espressione del suo carattere
immortale; ma questa Italia è pur quella che è in cima ai
pensieri di ogni Italiano, anche di quelli che erano già troppo
avanti negli anni per sentire in quella voce un grido sgorgante dal loro
stesso petto, anche di quelli che eran fanciulli quando quella voce tuonò
è non potevano ancora sentirne l'accento profondo. Di ogni Italiano,
che voglia essere Italiano.
Consentitemi questa riflessione.
Italiani non si è per diritto di nascita. Ognuno è quello
che merita di essere, ed ha quello che merita di avere. Quello che si può
presumere di possedere dalla nascita, bisogna conquistarselo col proprio
merito, col proprio lavoro, con i propri sforzi. Perciò Italiani
sono veramente quelli che vogliono essere Italiani.
E procurano di saper bene,
prima di tutto, che cos'è questa Italia: Roma, e Roma non soffocata
dai barbari, ma educatrice di tutti i barbari, di qua e di là dalle
Alpi per ogni terra che sarà, dopo la Grecia e Roma, l'Europa; e
poi, la Chiesa cattolica, elaboratrice e propagatrice mirabile dell'Evangelo,
la più radicale riforma e la più feconda e vitale mai stata
fatta della vita spirituale dell'uomo. E poi il Rinascimento, l'esplosione
più potente che la storia ricordi del genio umano, ossia della sua
potenza creatrice (nell'arte, nella scienza, nella politica, nella economia);
onde si varcarono le mal vietate colonne d'Ercole e l'uomo si impadronì
di tutta la terra e instaurò quel regnum hominis che è il
mondo moderno, tutto compenetrato, avvivato e illuminato dal pensiero dell'uomo.
E poi il Risorgimento, che fu la rivelazione di tutte le virtù latenti
di questo popolo antico e sempre giovane, sopravvissuto alla divisione
e alla servitù politica per forza del suo intelletto, per la profondità
dei suo sentire, per l'irriducibile coscienza della sua unità, per
l'incontenibile slancio del suo spirito, ansioso sempre di venire a vita
di Stato, e di essere ancora e sempre Italia: la nostra Italia sognata
dai poeti e preconizzata nei suoi termini e nella sua etica attualità
dal primo e maggiore di essi, l'Italia meditata da' suoi pensatori, attestata
e consacrata col sangue dei suoi martiri e poi da ultimo risorta come per
miracolo, per opera di uomini di tutto il mondo ammirati per la costanza
della loro purissima fede, per l'energia della loro azione ardimentosa,
per l’accorgimento e la sapienza della loro politica. Non c'è, in
verità, nazione al mondo la cui origine e formazione possa vantare
tanta gloria di martirio e di sacrifizio, e di valore guerriero e di patriottismo,
e tanta ricchezza di umanità e di vita morale: motivo di orgoglio
per i suoi, motivo di ammirazione per gli stranieri. Quanti libri di ricerca
animata di amore incondizionato come culto, in Inghilterra e in America,
per Mazzini e Garibaldi!
Italia grande e immortale,
questa per cui ci tocca di vivere e di morire. Una Italia a cui gli stranieri
si inchineranno sempre e si inchinano nel segreto del pensiero anche quando
l'interesse li tragga a schierarsi contro di lei. Ma è I'Italia
che deve esistere nel mondo come una realtà viva e presente e non
come un semplice ricordo: deve, come i monumenti più pregiati degli
antichi, perpetuarsi nell'amore e nella culla dei viventi, a cui spetta
di conservarli.
Oggi, Italiani, siamo al punto.
Oggi come non mai, da che siamo risorti a Stato e abbiamo detto: «Ci
siamo», gli occhi dello straniero sono sopra di noi. Non basta che
il nostro esercito, la nostra marina, la nostra aviazione abbiano fatto
prodigi di valore; il nemico, che ha assaporato l'amarissimo gusto delle
disfatte, si è rovesciato con tutto il peso immane delle sue macchine
brute sopra questa più debole parte del fronte avversario tenuto
da noi; ha fatto scempio delle nostre città; ha incrudelito contro
i domestici focolari, sopra le nostre donne, i nostri vecchi, le nostre
tenere creature: ha sperato, presume di fiaccarci e piegarci col terrore
e l'orrore di un flagello, che assume proporzioni d'uno di quei flagelli
che si scatenano dalla natura e innanzi ai quali l'uomo fugge esterrefatto,
quando non sia sterminato. Oh la insana furia devastatrice che ha imperversato
sulla bella Palermo, perla del Mediterraneo, cuore generoso dell'eroica
Sicilia. La notizia dell'ultima spettacolosa e infame incursione sopra
di essa mi giungeva con le bozze di un bellissimo libro, che ora si ristampa:
Palermo cento e più anni fa di Giuseppe Pitrè, del siciliano
più amante della Sicilia che ci sia mai stato, del più siciliano
dei siciliani, scrittore di grande dottrina e di grande passione, autore
di una ciquantína di volumi, in cui vive eterna la vecchia Sicilia,
che portò alla patria comune l'ardore de' suoi entusiasmi, la tempra
ferrea del suo carattere, la fierezza della sua anima indomita, l'acutezza
dei suo ingegno, e una grande fede nell'Italia madre. Se Giuseppe Pitrè
avesse vista la sua città natale, la città dove visse tutta
la vita, la città da lui investigata in tutte le sue strade, le
sue chiese, i suoi palazzi, nella vita pubblica e nella privata, nei suoi
signori e nel suo popolo, e amata come la casa dove siamo nati e dove risorgono
ad ora ad ora tutti i ricordi domestici intessuti nel fondo della nostra
anima; se l'avesse vista devastata dai novissimi barbari, e le case abbattute
e le strade desolate dalle macerie e dalla morte, oh, come ne sarebbe schiantato!
Ma il suo schianto è il nostro schianto: per Palermo, per Genova,
per Napoli, per Messina, per Cagliari, per Trapani, per le città
più duramente colpite. La risposta a questi eroi dello sport in
cui non splende una luce di onore militare, l'han data le nostre popolazioni
bombardate, mitragliate, tormentate fisicamente e moralmente di giorno
e di notte per mesi e mesi tra i disagi e le miserie inenarrabili di ogni
genere, conseguenti a ogni incursione, tra il terrore della morte e le
tribolazioni degli sfollamenti, nella fame e nella sete, maledicenti sempre
al nemico spietato, anelanti sempre alla salvezza della Patria.
Non un grido di protesta contro
i presunti responsabili della guerra; non un tentativo di farla comunque
finita; non un segno di stanchezza e prostrazione degli animi.
Spettacolo ammirevole e altamente
commovente che incute rispetto agli stranieri, che fa riflettere i nemici
e deve far riflettere noi stessi. I nemici rifletteranno forse che non
è questa la via della vittoria perché non è questa
la via dell'onore. Noi, da parte nostra, dobbiamo riflettere che di questo
popolo che meraviglia il mondo con la sua eroica capacità di resistenza,
noi Italiani dobbiamo essere degni per l'animo impavido che non trema si
fractus illabatur orbis; degni per la coscienza del dovere che c'incombe
di assistere con cordiale solidarietà tutti questi nostri fratelli
che più soffrono per la Patria comune; di sorreggerli con l'esempio
e con la parola; con l'esempio di abnegazione e devozione alla causa per
cui si combatte e per cui si può chiedere il sacrifizio anche delle
cose più care: con l'esempio della fierezza con cui devono essere
sfidati i pericoli e sopportati i più dolorosi disagi se questi
sono inevitabili per la vittoria; con la parola animatrice, sdegnosa fino
allo scrupolo d'ogni confessione delle nostre debolezze, dei nostri difetti,
di tutte le difficoltà, tanto maggiori quanto più sentite
e sciorinate agli altri e a noi stessi: la parola che sia sempre seminatrice
di fede e non insinuatrice di pessimismo. Tutti gli Italiani che riflettono,
che pensano, che in questa lunga vigilia della vittoria, quando non abbiano
più urgenti cure di lavoro e di pratici problemi profittano del
celeste dono dell'intelligenza, che è sempre critica e tende sempre
alla satira o all'invettiva, per farne materia di analisi, di considerazioni
più o meno oggettive, come si dicono, e ad ogni modo irresponsabili,
sopra l'andamento della guerra, sopra le sue origini, sopra le sue difficoltà,
sopra gli errori commessi, sopra l'esito finale, non sono gl'Italiani degni
del popolo che soffre e non diserta. Gli Italiani che domandano ogni giorno
i conti, che vogliono vedere freddamente come vanno le cose, che hanno
da dire qualche cosa su tutto quello che si fa, che si mettono insomma
al di sopra degli avvenimenti, poiché esercitare l'intelligenza
è sempre un mettersi al di sopra delle cose e trarsi fuori dell'azione,
per fare la parte di spettatore che giudica senza compromettersi; questi
falsi Italiani devono aprire bene gli occhi e por mente che non è
punto vero che essi non si compromettono e non agiscono. Essi compiono
una loro azione, un'azione vile di devastazione delle energie morali del
popolo che soffre e combatte, essi assumono una tremenda responsabilità:
la responsabilità del tradimento. Nessun Italiano ha oggi il diritto
di dire: - Questa non è la mia guerra; io non l'ho voluta -. Non
c'è nessuno in Italia che prenda parte alla vita della nazione in
modo più o meno attivo, che non abbia voluto la guerra in cui la
Patria è impegnata.
L'avrà voluta indirettamente
se non per diretta decisione. Poiché una guerra come questa, in
cui sono impegnate, in un modo o nell'altro, tutte le forze del mondo,
una guerra che gli storici non potranno spiegare senza risalire a secoli
di eventi che l'hanno preparata, maturando lentamente attraverso tutto
lo svolgimento dell'imperialismo anglo-sassone, la concentrazione e il
potenziamento della grande industria, la risurrezione e l'organizzazione
dell'Asia, il travaglio sociale del lavoro e pensiero europeo nella rivendicazione
delle classi lavoratrici e delle utopie che ne son derivate; una guerra
di queste proporzioni che è sotto i nostri occhi una delle maggiori
crisi della storia del mondo, non è concepibile come risoluzione
arbitraria di uno o più individui. Tutte le previsioni umane sono
state via via superate; perché chi operava ed opera non è
l'umano accorgimento, che negli individui pare arbitrio derivante da personali
programmi contingenti. Opera un agente molto superiore, che è pure
umano ma fa pensare a Dio; o se questo nome che qui non si nomina invano,
vi pare troppo alto, dite pure la Provvidenza o anche la logica, o la necessità
della storia. Fata trahunt; e ogni recriminazione nel pericolo è
viltà. E' pavida ansia di mettersi in disparte, mentre l'incendio
infuria ed è dovere di tutti adoperarsi a spegnerlo.
Da questa viltà non
è facile guardarsi. Ma tanto maggiore perciò il dovere di
non cadervi per leggerezza, irriflessione, perfido gusto di chiacchierare
e far pompa del proprio acume. Massimo dovere questo per gli Italiani che
hanno per lunghi secoli scontato questo difetto della loro più alta
virtù, voglio dire l'intelligenza. Della quale abusarono in passato,
dal Rinascimento in qua, staccandola dalla vita per darle agio di spaziare
liberamente nella letteratura e nell'accademia; e dopo i martiri del '99,
del '21 e del '31 ci volle l'apostolato assiduo, ardente di spirito religioso
di Giuseppe Mazzini; ci volle anzitutto la rivoluzione spirituale operata,
con quella mano poderosa che pareva non aver nervi, da Alessandro Manzoni,
per riportare l'intelligenza alla serietà religiosa della vita:
dove non c'è parola, non c'è sentimento che non pesi in eterno
col suo valore, e non c'è perciò attimo della vita di cui
l'uomo non debba render conto anche nel segreto della sua coscienza.
Né recriminare, né
far profezie almanaccando sull'avvenire che resta sempre sulle ginocchia
di Giove anche per quei pochi che conoscono della politica tutto ciò
che ai molti sarà sempre impossibile conoscere. Vinceremo? Non vinceremo?
Entrambe le previsioni sono deleterie se fatte come di eventi oggettivamente
necessari, i quali accadranno, quale sia la nostra personale condotta.
Diventando infatti sorgente
di quel facile ottimismo e di quel non meno facile pessimismo che non costano
nulla oltre un piccolo gioco di parole e di calcoli più o meno probabili,
ma sono ugualmente funeste come tentazioni rallentatrici e disgregatrici
della volontà. Io sono stato sempre ottimista. Ma l'ottimismo sano
e legittimo non riguarda gli avvenimenti che sono nelle mani di Dio, ma
s'irradia dall'intimo della nostra coscienza e della nostra persona: è
l'ottimismo di chi crede, e con la sua fede crea il bene a cui si aspira;
o, che è lo stesso, concorre a crearlo.
Vincere l'Inghilterra, l'esecrata
tiranna di ieri, la tiranna certamente spietata di domani, si, la dobbiamo
vincere; e la vinceremo, se la vorremo vincere a qualunque costo; se non
ci stancheremo di combattere, se resteremo fedeli ai nostri impegni verso
gli altri e verso noi stessi, se in ogni ora del giorno, in ogni istante
ci ricorderemo di questo nostro dovere. Ma questa vittoria è una
vittoria secondaria e subordinata; la principale è un'altra vittoria,
condizione della prima, e sola veramente essa è quella che dobbiamo
ottenere giorno per giorno costantemente, sopra noi stessi, vincendo tutte
le tentazioni allettatrici della viltà, reagendo con cuore indomabile
ad ogni avversa fortuna, tenendo sempre alta la bandiera: la bandiera della
Patria, che è la bandiera della nostra coscienza, della nostra morale
esistenza. E’ la vittoria che dipende da noi, e che nessuno ci potrà
strappare dalle mani se noi la terremo in pugno con tutto il vigore dell’anima,
come la nostra dignità alla quale nessuno vorrà mai sopravvivere.
Ogni popolo ha Innanzi una
vittoria che è il suo dovere, e una vittoria che è il suo
diritto. Il quale non suole mancare a chi compie il proprio dovere. E quando
fallisse, quando tutto fosse perduto tranne l'onore, o prima o poi, la
storia ce l'insegna, la giustizia si compirebbe perchè un popolo
che serbi intatta la coscienza della propria dignità, e la purezza
della propria razza, che non smarrisce la nozione di quello che è,
e dev'essere, potrà vedersi a un tratto oscurare il firmamento sopra
di sé; ma a breve le stelle torneranno a brillare nel cielo; ed
egli nella sua coscienza tranquilla saprà ritrovare la sua via.
Ed i nemici continueranno ad inchinarsi alla nazione che anche attraverso
la sventura abbia dimostrato la sua natura immortale. L'importante dunque
è aver fede nella vittoria: nella essenziale vittoria che dipende
dalla nostra stessa fede ed è infatti nella nostra volontà.
Essa sola può farci meritevole dell'altra. La cui previsione è
molto difficile per le ovvie ragioni che tutti sanno; ma anche per una
considerazione che per solito sfugge, e che deriva dalla stessa difficoltà
di determinare il significato reale della parola «Vittoria».
La quale è bensì
la conclusione della guerra guerreggiata; ma può essere una conclusione
militare, per cui una delle due parti contendenti è costretta a
deporre le armi; ma può intendersi anche come una conclusione politica,
la quale è complessa e risulta da una convergenza transitoria di
interessi che provochi magari una Carta atlantica sottoscritta con la piena
coscienza che gli eventi, andando al di là del preveduto, potranno
buttare quella carta in fondo allo stesso Atlantico. Meglio dunque attenersi
a Dante, che colloca in Malebolge indovini e astrologhi condannati in eterno
a portare il viso stravolto sulle spalle, come Tiresia e come Anfiarao
che ha fatto petto delle spalle perché volle veder troppo davanti;
di retro guarda e fa retroso calle. Secondo Dante, questo strologare sul
futuro è un portare passione al giudizio divino. L'uomo, che abbia
senso di vita morale, deve anche lui chinare la fronte e riconoscere il
massimo Fattore, e tacere, ma tenendo virilmente il proprio posto, disposto
a vivere, disposto a morire.
Senza questa religiosa disposizione
dell'animo, l'uomo si sbanda, e diventa pagliuzza in balia del vento; ma
non è più uomo, come può soltanto avendo un carattere,
un volere, un dover, un punto che è il suo centro, la sorgente della
sua vita e di ogni suo pensiero. E vorremmo noi negar la fiducia a Dio
se noi avremo fatto tutto il nostro dovere? Potremo noi sospettare che
i valori dello spirito che noi realizziamo, vadano perduti? Potremo noi
temere che questa Italia immortale, che splende agli occhi di tutti nel
mondo, se è viva negli animi nostri, perisca sotto i colpi di ebbri
piloti di fortezze volanti? Potranno cadere anche le mura e gli archi,
che sono rimasti per millenni a testimoniare la maestà di Roma e
la barbarie dei suoi nemici; potranno, in questa lotta del nuovo continente
restio e sordo all'azione incivilitrice dell'Europa e cioè di Roma,
i nuovi barbari compiere l'azione devastatrice degli antichi: ma ci può
essere uomo al mondo, di qua o di là dall'Oceano, che pensi di far
tramontare la gloria di questo Campidoglio fulgente? Che pensi che il Sole
possa qualcosa urbe Roma videre maius? E dico Roma antica e moderna; e
dico il Comune italiano e il Rinascimento; e dico il Risorgimento. Le città
nostre potranno essere distrutte; ma saranno riedificate perché
il popolo stesso che le ha fatte nascere le farà rinascere; potranno
anche esser mutilate o annientate le chiese e i monumenti, che facevano
ricercare da ogni uomo colto la nostra terra di civiltà sempre viva
nel genio che le produsse; ma gli stessi avanzi parleranno e la memoria
non potrà perire; e basterà mantener viva la coscienza della
grandezza italiana e del bestiale vandalismo di chi a un tratto volle dimenticare
che i monumenti di codesta grandezza erano patrimonio spirituale di tutti
gli uomini del mondo; anche di quelli che, l’Italia proprio l'Italia, con
Colombo trasse dagli oscuri e ignorati ipogei della storia, e accomunò
alla vita dell'Europa elevandoli alla luce della nostra civiltà
nella solidale collaborazione di tutte le nazioni disciplinate da un'altra
religione umana, dalla ricerca scientifica spiritualizzatrice della materialità
della natura che essa sottomette a mano a mano alla signoria dell'uomo,
e della riflessione filosofica che fa l'uomo padrone di sé medesimo.
Né gli Americani si può dire che non lo sapessero, se, come
ognuno ricorda, non contenti di venire da noi ad ammirare e studiare, hanno
tanto fatto e pagato per racimolare le briciole del grande banchetto italiano
di storia ed arte, e arricchirne i loro musei e le loro biblioteche. Italiani,
siate voi fedeli alla madre antica; disciplinati, concordi, memori della
responsabilità -che viene a voi dall’onore di essere Italiani; risoluti
di resistere, di combattere, di non smobilitare gli animi finché
il nemico vi minacci, e dubiti della vostra fede e dei vostro carattere.
Le dispute e le dissensioni a dopo. A Calatafimi Garibaldi gridò
a Nino Bixio: Qui si fa l'Italia o si muore. Quel grido non è spento
e la grande voce dell'Eroe risuona, deve risuonare oggi nel nostro cuore:
Qui si salva l'Italia o si muore. Noi che siamo sulla china degli anni,
e siamo vissuti dell'eredità dei padri, sentendo sempre l’obbligo
nostro di conservarla, questa eredità, e per quanto era da noi di
accrescerla col nostro lavoro e con ogni sforzo di buona volontà,
non sappiamo pensare che essa non abbia a potersi consegnare nelle mani
dei giovani, capaci di sollevarla in alto col vigore delle loro braccia
al di sopra delle passeggere discordie, dei piccoli risentimenti settari,
delle ansie e de' rischi dell'ora presente, al di sopra di tutte le umane
debolezze, per tramandarla ai nepoti, sempre viva, splendida della sua
eterna giovinezza.
Con questa fede nella Patria
immortale, noi mandiamo il nostro saluto di riconoscenza e di amore agli
eroici soldati di terra, di mare e del cielo; e continuiamo a guardare
alla Sacra Maestà del Re, silenzioso e sicuro nella semplicità
austera del gesto e della parola; a guardare negli occhi del Duce, che
conosce le tempeste e ci ha dato prove del coraggio che le fa vincere,
della indomita passione con cui si deve guardare al destino.
Viva l'Italia!
DISCORSO AGLI ITALIANI Giovanni Gentile.
Ed. Sentinella d'Italia